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AUTORI

Alessia Canfarini
Human Capital

Siamo fatti di diversità

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Diversity is the essence of humanity”, disse John Hume, politico nordirlandese, premio Nobel per la Pace 1998. La differenza è un “incidente di nascita”, spiegava, “è naturale”.

Che l’eterogeneo sia intrinseco nella società è un dato di fatto. Il fenomeno della globalizzazione, poi, non ha fatto altro che dare una dimensione planetaria a questo elemento. La diversità ci riguarda, anzi, ci appartiene. Ignorarla o negarla è inutile.

Come porci nei confronti della diversità?

The answer to difference is to respect it”, proponeva Hume durante la cerimonia di consegna del Nobel. La diversità va rispettata, accettata e trasformata in valore. Non può essere il punto di fine ma quello di partenza. Non un muro spesso e invalicabile, ma un collegamento flessibile e costante. Non un confine ma un orizzonte. Consapevoli che tra il dire e il fare c’è di mezzo un oceano di variabili, questo principio è applicabile a qualsiasi forma di aggregazione: stati, comunità, organizzazioni. Anche team di lavoro.

Rispetto, accettazione, trasformazione in valore. Ecco l’essenza della Diversity & Inclusion, detta D&I, strategia di management volta a creare “una cultura aziendale inclusiva, basata sulla valorizzazione delle differenze individuali quali fattori di innovazione e di miglioramento delle performance personali e organizzative[1].

Nulla di nuovo. Gli antichi Romani già praticavano la diversity e lo facevano con un discreto successo, dalla gestione dei territori, al commercio, alla cultura e all’arte. Gli sceneggiatori Plauto, Terenzio e Nevio fecero, ad esempio, spesso ricorso alla “contaminatio”, una tecnica di scrittura con cui due opere greche venivano unite per crearne una terza in latino. In sostanza, dalla fusione di due entità diverse ne nasceva una nuova, più ricca. Non esistevano categorie definite una volta per tutte, i confini, penetrabili, diventavano occasione di incontro e contaminazione tra culture e prospettive differenti. I romani hanno fatto scuola di inclusione in questo senso: la barriera è uno spazio fertile di apprendimento, mai un limite.

Il diverso è valore in potenza, dicevano gli antichi romani dei quali condividiamo la posizione. Ma se in letteratura è sufficiente una tecnica, all’interno di una organizzazione questo non basta. È parte del DNA di ogni azienda quello di essere realtà complesse, nelle quali una singola azione non avrebbe nessun rilievo duraturo. Serve in questi casi un processo di trasformazione condotto con un approccio sistemico, che coinvolga la totalità degli individui, delle loro caratteristiche e delle dinamiche di interazione.

Partiamo dalla considerazione che quello della D&I non è un percorso in discesa. Anzi, come accade in tutte le trasformazioni, possono presentarsi perplessità e resistenze.

Quindi, perché conviene al business includere e valorizzare le differenze?

Perché sebbene gli sforzi richiesti non siano pochi, i risultati sono vari e tangibili. L’esito di una forte focalizzazione sul D&I viene fotografato dal Diversity Brand Index (DBI), parametro che misura la percezione customer based del livello di inclusione dei brand e del loro reale impegno nel D&I. Gli effetti generati da una cultura inclusiva hanno una ricaduta immediata in termini di trustloyalty e word of mouth. Non solo, gli impatti dati da una pratica di inclusività riguardano anche tutta l’organizzazione e gli stakeholders che ne fanno parte, generando benefici in termini di profitability e di business performance. Numeri alla mano, risulta evidente che l’inclusione accelera la crescita: nel 2019 i brand che hanno investito sulla D&I hanno avuto una crescita dei ricavi del 23% rispetto all’anno precedente (Diversity Brand Summit). A beneficiarne sono anche gli employee che, sentendosi inclusi a pieno nei progetti del team, sviluppano un forte senso di appartenenza all’organizzazione, esprimono liberamente le proprie idee ed il proprio potenziale dando il meglio nelle prestazioni lavorative.

Da dove iniziare un processo di D&I?

Dalle diversità che possono esserci nel gruppo. Secondo uno schema elaborato da Lee Gardenswartz e Anita Rowe nel 1994, sono oltre venti i possibili fattori di diversità. Le due esperte di D&I avevano individuato quattro livelli di diversity rappresentabili come una serie di cerchi concentrici. Al centro sta la personalità, unica per ogni individuo. Nel secondo cerchio vi è tutto quello che riguarda le caratteristiche primarie dell’individuo, come età, genere, lingua, gruppo etnico, dis-abilità, orientamento sessuale. Seguono la dimensione secondaria (residenza, reddito, abitudini, religione, titolo di studio, esperienza lavorativa, aspetto, famiglia di origine stato civile) e quella organizzativa (competenze professionali, funzione, status manageriale, area, sindacalizzazione, sede di lavoro, anzianità). Considerati insieme i quattro livelli definiscono l’identità dell’individuo e ne determinato la percezione della realtà.

Non è detto che tutte le differenze siano presenti in un gruppo, come non è detto che tutte le realtà debbano seguire lo stesso percorso. Ciò che conta è avere una visione a 360 ° in grado di individuare lo stadio di maturità dell’organizzazione rispetto all’inclusione ed attivazione delle differenze in ottica di valorizzazione delle stesse facendo chiarezza su obiettivi, priorità ed impatti.

Partendo dall’esperienza sul campo, noi di BIP abbiamo sviluppato una strategia di D&I su tre livelli di azione: open door, open mind, open system[2]. Pur se considerabili come fasi consequenziali, sono i tre momenti cardine del processo di gestione delle differenze orientato a:

  • Rendere gli individui capaci di dare il meglio di sé nel proprio lavoro
  • Creare nuove condizioni di sviluppo per il business.

Il primo passo è la consapevolezza e l’accettazione della diversità (open door), che è possibile sfilando una volta per tutte il velo di Maya che siamo stati abituati a indossare, quel modo di vedere il mondo solo dal nostro punto di vista. Per riconoscere le differenze all’interno di una organizzazione, imparando ad accettarle e rispettarle, è necessario decostruire gli stereotipi (che si esprimono anche con il linguaggio che si utilizza), e avere consapevolezza dei nostri comportamenti di eventuale chiusura, non conoscenza od indifferenza verso le differenze. Dalla consapevolezza all’accettazione.

Rotta la barriera delle nostre “credenze limitanti”, diventa più facile riconoscere il valore delle diversities (open mind). Per spiegare questo passaggio possiamo prendere esempio dalla teoria evoluzionistica. Ogni volta che un organismo evolve, lascia da parte un pezzo del proprio DNA, di cui non ha più bisogno. Anche la D&I è una evoluzione e quel pezzo di genoma che non serve più sono i pregiudizi che ci lasciamo alle spalle. Avere un approccio open minded all’interno di un luogo di lavoro vuol dire riconoscere che ognuno porta con sé un valore e che si può apprendere dalle diversità. In questa fase del percorso D&I è fondamentale avere un management preparato e pronto a gestire le differenze delle persone del team, che riesca a rendere possibile il passaggio dal riconoscimento alla valorizzazione.

Se cambia la prospettiva che gli individui hanno della realtà di cui fanno parte, è possibile arrivare a una dimensione di open system, in cui la cultura dell’inclusione è possibile e praticabile. È questo lo step fondamentale di attivazione delle differenze, che diventano strumento per sviluppare il potenziale dell’individuo e dell’organizzazione. Il lavoro in team di persone diverse diventa il canale di sviluppo di prodotti e servizi in cui si rispecchiano sia gli employee che i clienti.

Questo modus operandi organico tiene conto di tutta l’organizzazione, di ciascun individuo e di tutte le dinamiche che intercorrono tra di loro, compresa la percezione dell’inclusività sul posto di lavoro. Il luogo di lavoro in cui vivo quotidianamente è davvero inclusivo? Non è sufficiente che il management si ponga questa domanda. Bisogna assicurarsi che, alla risposta “si”, corrisponda una equivalente percezione da parte degli employee. Spesso una mancata riflessione sul punto è all’origine di un gap tra il percepito degli employee e quello dei leader. Colmare questo divario significa trasformare la semplice attenzione al tema in un agire concreto (fonte: Accenture). La differenza sta proprio in questo. Lo slogan D&I di una nota azienda nostra cliente che opera nell’industria del fast good consumer dice: “Diversity is being invited to the party, inclusion is being asking to dance”. Una cosa è andare a una festa, un altro è essere invitati a ballare al centro della pista. Ci si può sentire soli o a disagio anche alla più bella delle feste, se non si è protagonisti e non si ha nessuno con cui condividere il momento.

Negli ultimi anni l’attenzione al tema della D&I è stata in costante crescita, tanto da essere a volte persino “abusato”. Il rischio che da pratica virtuosa diventi una moda o una mera facciata di rappresentanza non è poi così irrealizzabile. La diversity è una possibile fonte di sviluppo, ma da sola non basta: è l’inclusività l’elemento in grado di trasformare le divergenze in leve di integrazione e di business. In questo senso è d’esempio l’opera di noti player nel mondo telco, che hanno fatto della D&I non una semplice strategia di management ma un chiaro posizionamento dell’azienda, sviluppando un nuovo tassello, più evoluto del percorso. Se internamente la D&I è applicata attraverso pratiche di coinvolgimento dei collaboratori, all’esterno si traduce nel proposito sostenibile di favorire lo sviluppo di una società più inclusiva in cui tutti possono trarre benefici dalla tecnologia.

Parlare della diversity solo come processo interno all’azienda oggi appare riduttivo. È un percorso che nasce nell’organizzazione ma che guarda alla società di cui essa fa parte. Non è solo una questione legata all’ambito HR. Riguarda anche il business e la brand reputation. Era il 1983 quando Oliviero Toscani scattava le foto di una campagna pubblicitaria di un’azienda veneta del settore moda che è passata alla storia. I ritratti dei bambini di diverse etnie, come l’immagine della donna bianca che allatta un bambino di colore, hanno fatto il giro del mondo e hanno lanciato, forse per la prima volta, l’idea di un prodotto universale per tutti. Una forma di D&I ante litteram più legata alla comunicazione che ad una strategia di management, ma che già allora mirava alla posizione del brand come realtà inclusiva.

La D&I rimane oggi una possibilità di cambiamento, non un imperativo assoluto. È pur vero che, se ben gestito, con il coinvolgimento di HR e management, un percorso di D&I può diventare leva per il business, contribuendo allo sviluppo della creatività, dell’innovazione e della produttività. Questo vale anche per il lato della performance: è stato rilevato che le imprese caratterizzate da un equilibrio tra presenza maschile e femminile hanno il 21% di probabilità in più di superare i loro concorrenti, mentre tale probabilità si alza fino al 33% nel caso di gruppi connotati da un buon mix di background (2018 McKinsey & Company).

Avere un ambiente di lavoro fatto da persone diverse, vuol dire avere più punti di vista che si incontrano e convivono nel momento operativo, mentre si persegue un risultato comune. Da questo punto di vista le grandi organizzazioni sono un po’ come le orchestre sinfoniche. Gli archi, i legni, gli ottoni, le percussioni sono sezioni di strumenti completamente diversi, ma in costante dialogo fra loro, tutti ugualmente fondamentali. Gli orchestrali vedono la realtà da un determinato punto di vista in base alla posizione

occupata, ma non possono mai fare a meno l’uno dell’altro, anche del diverso. Gli ottoni dal suono maestoso e potente non possono mai coprire il canto dei violini, dovranno suonare sempre insieme a loro, mai sopra di loro. Tutti lavorano mossi da una cultura di assoluto rispetto, che inizia dal rapporto con il proprio compagno di leggio fino ad arrivare al direttore, il punto di riferimento per l’orchestra, colui che ha il compito di gestire le varie sezioni e individuare i punti di attrito tra loro. C’è il rispetto e c’è la fiducia. I musicisti si fidano del collega e sanno che entrerà alla giusta battuta, si affidano totalmente al direttore che ha piena fiducia negli orchestrali. Rispetto, ascolto, inclusione. Cento elementi, ognuno diverso dall’altro e con una propria entità riconosciuta nel gruppo, nel momento della performance sono in sintonia a tal punto da sembrare uno. A questo deve tendere oggi un percorso di D&I: non solo includere le diversità, ma riuscire a connetterle in una unicità, pur mantenendo intatta la loro identità.

In questo le soluzioni progettuali che abbiamo sperimentato sul campo con i nostri clienti sono anch’esse diverse in funzione della maturità e della cultura manageriale, organizzativa e geografica: dalla costituzione di reti di sponsor interni che facilitano la possibilità alle minoranze di acquisire velocemente visibilità, alla programmazione di D&I week a tema nell’ecosistema di riferimento, alla creazione di community verticali sostenute da membri dell’ExCom, alla definizione di KPI e modelli di competenze inclusive riconosciuti negli MBO annuali dei people manager, al coinvolgimento bottom-up sulle definizione delle iniziative da intraprendere, al sostegno personalizzato di specifici target di collaboratori (pensiamo ad esempio alla generazione di collaboratori che, in un certo momento della loro vita sono coinvolti – a mo’ di sandwich – tra il caring dei genitori anziani e la gestione turbolenta dei figli adolescenti, pensiamo a come accogliere e valorizzare la work-force “diversamente” abile che è previsto cresca del 30% entro il 2030 ).

Essere diversi esprimendo liberamente ciò che si è spesso richiede coraggio. La natura ci insegna che l’evoluzione nasce proprio con le diversità. Se tutto restasse uguale a se stesso non esisterebbe il progresso e con esso la libertà. Così come la nostra capacità di raggiungere l’unicità, non l’uniformità, nella diversità sarà, al tempo stesso, la bellezza ed il banco di prova del nostro grado di civiltà sociale, organizzativa ed individuale, consapevoli che la diversità è l’unica cosa che tutti abbiamo veramente in comune!

Siamo fatti di diversità. È così da sempre, per natura.


[1] Definizione tratta dal glossario di Diversity Brand Summit

[2] Source: Studio D.U.O.

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