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In un’epoca caratterizzata da abbondanza di prodotti e poco tempo per scegliere, il Product Management emerge come disciplina cruciale per le aziende che vogliono creare valore reale. Ne parliamo con Cristiano Giardi, Manager di PagoPA S.p.A, che ci racconta come la continua validazione delle idee e la comprensione dei bisogni nascosti degli utenti siano diventati pilastri fondamentali in un contesto sempre più complesso e competitivo.
Cristiano, per iniziare potresti raccontarci come ti sei avvicinato al mondo del Product Management e cosa ti ha affascinato in particolare?
Certamente. Il mio percorso nel mondo del product management è stato, in un certo senso, graduale e inaspettato. Ho iniziato a occuparmi di prodotto senza nemmeno rendermene conto, lavorando in una società che sviluppava software per il settore sanitario. Sebbene non fosse formalmente etichettato come “product management”, questa esperienza mi ha permesso di comprendere alcune logiche fondamentali dello sviluppo prodotto, focalizzandomi sui bisogni degli utenti finali.
Con il tempo, il mio percorso si è evoluto, includendo il project management, le metodologie agili e il coaching. Infatti, ho capito che non mi bastava semplicemente prendere parte alla realizzazione di un prodotto, ma desideravo capire come farlo nel modo più efficiente. È stato così che sono entrato nel mondo dell’agile, un approccio che mi ha offerto maggiore flessibilità e collaborazione nello sviluppo.
Il passo successivo è avvenuto quando ho iniziato a interrogarmi non solo sul “come” realizzare una soluzione, ma soprattutto sul “perché” farlo. Questa è un’evoluzione naturale per chi, con un background tecnico, sente il bisogno di andare oltre il modo di lavorare e comprendere il motivo per cui è necessario realizzare delle funzionalità. Così sono approdato al Product Management, disciplina che, fino a qualche anno fa, non era così diffusa come lo è oggi, anche all’interno di aziende di grandi dimensioni.
Perché hai scelto di parlare proprio di questo tema e che titolo daresti al tuo lavoro?
Lo chiamerei “Il Product Management come fenomeno degli anni 2020”. È un tema che mi sta girando in testa da tempo ed è nato da diverse riflessioni interconnesse. La prima è stata influenzata da Umberto Galimberti, filosofo e psicoanalista, che fa una fotografia interessante della realtà attuale: oggi tutto è basato sulla tecnica, che potremmo intendere anche come tecnologia. La tecnica non è più un mezzo, ma è diventata il fine stesso per cui realizziamo le cose. L’obsolescenza programmata è un chiaro esempio di questo fenomeno. Siamo spinti a comprare nuovi cellulari ogni due o tre anni, nuovi televisori e nuove auto, anche quando non ne abbiamo realmente bisogno. Secondo Galimberti, noi siamo dei “funzionari” di questo sistema, che producono per consumare, e l’obsolescenza ci obbliga a consumare per continuare a produrre, creando un circolo vizioso.
Quale impatto ha questa sovrabbondanza di prodotti sul consumatore?
Il problema principale è il tempo. Il nostro tempo è sempre più frazionato e non ne abbiamo mai abbastanza per informarci e valutare le opzioni disponibili. Ci sono così tante alternative che il consumatore si sente “murato”, sopraffatto dalla quantità di prodotti, e la scelta diventa sempre più difficile. C’è una continua offerta di prodotti e poco tempo per scegliere. Come dice Seth Godin nel libro “La Mucca Viola”, questo impatta notevolmente non tanto il raggiungimento degli early adopter, ma soprattutto della early majority, cioè quella fascia di utenti fondamentale per il successo di un prodotto sul mercato. Quindi oggi, alla sfida di “superare il burrone” (Crossing the chasm) per raggiungere il mercato mainstream, dopo aver conquistato i primi utenti più propensi all’innovazione, si affianca quella di restarci il più a lungo possibile. Per farlo, è fondamentale offrire continuamente valore agli utenti, mantenendo alta la loro attenzione e contrastando l’attrazione di soluzioni concorrenti.
E come possiamo affrontare questa crescente complessità, questa saturazione del mercato?
Per affrontare questa complessità, dobbiamo adottare un approccio diverso. Personalmente, trovo utile il framework di Cynefin di David Snowden, che ci aiuta a navigare in contesti complessi. In questi contesti, la strategia da adottare è “probe, sense, respond“, ovvero sondare, percepire e rispondere. Con l’alta volatilità del mercato attuale, l’unico modo per capire se stiamo creando prodotti appetibili è quello di provare, provare e ancora provare. Anche se questo framework è stato reso noto ai più nel 2007, rimane validissimo: in un mondo dove siamo spinti a produrre sempre di più, perché il mercato ci obbliga a consumare, l’unica strada è la sperimentazione continua.
Osservando il tuo sketch e ricollegandoci a quanto dicevamo prima, notiamo che la percentuale di prodotti di successo sta diminuendo nel tempo. Cosa si può fare per massimizzare questa percentuale di successo?
A mio avviso, ci sono tre punti fondamentali da seguire. Il primo è conoscere bene i bisogni dei consumatori, ma non sto parlando tanto dei bisogni evidenti, in quanto quelli sono già ampiamente coperti da soluzioni esistenti, quanto dei bisogni nascosti, inespressi. Il secondo punto è l’esplorazione e la validazione continua, come sostiene Teresa Torres. È fondamentale perché la “schizofrenia” che caratterizza questi anni fa sì che i bisogni delle persone cambino molto velocemente. La costante deve essere proprio questa: esplorazione e validazione continua. Il terzo è avere una struttura organizzativa che permetta il perseguimento dei due punti precedenti.
Ecco Cristiano, approfondiamo questo ultimo punto. Qual è la tua esperienza in merito?
Dei tre aspetti citati, il più critico è avere una struttura che permetta di fare discovery. Le principali insidie che osservo sono la mancanza di tempo e di un’organizzazione adeguata, intesa come strutture, persone e risorse dedicate. Infatti, troppe aziende sono strutturate per privilegiare la delivery a scapito della discovery, con team che operano in silos e un focus più orientato all’output che all’outcome.
Per promuovere una cultura di product discovery efficace, è indispensabile costruire strutture che la supportino concretamente, coinvolgendo specialisti che conoscano il tema e non si limitino a seguire le opinioni dei cosiddetti “HiPPO” (Highest Paid Person’s Opinion). Un altro elemento chiave è il concetto di “product trio” introdotto da Teresa Torres: la collaborazione tra product manager, designer e sviluppatori si rivela fondamentale per migliorare sia la discovery che la delivery. Tuttavia, anche quando emergono dati e ricerche approfondite, capita spesso che le decisioni siano influenzate dalle opinioni di chi detiene il potere decisionale, a discapito dell’evidenza.
Quindi, come possiamo limitare l’influenza degli HiPPO e promuovere un processo decisionale basato sui dati e sui bisogni reali degli utenti?
Nel mondo delle Startup è quasi fisiologico che il founder sia parte attiva nella definizione del prodotto che rappresenta il veicolo di diffusione della startup stessa, oltre che generare i primi ricavi. Questo atteggiamento è comprensibile e può portare a una gestione basata più sulle intuizioni personali che sulle evidenze raccolte.
Nelle aziende più strutturate, invece, lo scenario che si presenta è diverso: l’organizzazione è proprietaria di un portfolio di soluzioni che costituiscono l’asset aziendale, anziché di un unico prodotto, ed è necessario che il top management sia più coinvolto nella definizione della strategia e del posizionamento anziché nella ricerca del valore che può essere rilasciato con le funzionalità dei prodotti. In questi casi, purtroppo, si vede frequentemente dare maggior risalto a soluzioni “quick and dirty” per massimizzare profitti immediati, con conseguente compromissione della qualità a lungo termine che poi sarà necessario ripagare.
Superare questa dinamica richiede una cultura di continuous discovery, in cui le decisioni siano guidate dai dati e dalle reali necessità degli utenti. Le aziende devono investire nella formazione dei team, creare spazi per la sperimentazione e integrare la discovery nella strategia. Questo approccio è essenziale per un successo sostenibile.
Come affrontate questa sfida in PagoPA?
Con il team con cui lavoro abbiamo implementato un workflow strutturato che ci permette di raccogliere e analizzare i bisogni degli stakeholders, sia interni che esterni. Il processo inizia con una fase di ascolto e confronto, in cui non ci limitiamo a ricevere richieste, ma le utilizziamo come punto di partenza per comprendere il contesto più ampio e coinvolgere altri stakeholder rilevanti.
Una volta raccolti e analizzati i bisogni, il product trio, composto da Product Manager, design e tech, ipotizza una soluzione. Tuttavia, prima di passare all’implementazione, torniamo dagli stakeholder principali per validare l’ipotesi e assicurarci che la soluzione proposta risponda realmente alle loro necessità. Solo dopo aver integrato i loro feedback procediamo con l’implementazione, seguita da ulteriori momenti di verifica per raccogliere nuovi spunti di miglioramento.
Questo processo iterativo e collaborativo richiede almeno due fasi di confronto con gli stakeholder: una iniziale per comprendere le esigenze e una successiva per validare la soluzione proposta. Sebbene possa sembrare articolato, è essenziale per garantire che il nostro prodotto sia realmente utile e di valore. Investire tempo in questa fase ci permette di sviluppare soluzioni più efficaci, riducendo il rischio di rielaborazioni e migliorando l’esperienza complessiva degli utenti.
Nel tuo sketch notiamo che tra le responsabilità del PM hai scritto “lavorare per realizzare prodotti di valore allo status quo e per seminare un mindset di prodotto”. Come vedi questo aspetto del tuo lavoro, questa veste di “coach” all’interno dell’azienda?
Sì, corretto. Il Product Manager deve essere anche un “coach”, soprattutto nelle aziende in cui il mindset di prodotto non è ancora diffuso. Il suo ruolo non è solo quello di definire le caratteristiche del prodotto, ma anche quello di educare l’azienda all’importanza di un approccio incentrato sull’utente e sul valore. È un po’ come per l’agile. Ci vuole tempo per cambiare le organizzazioni, per far comprendere i benefici di un nuovo modo di lavorare. Per questo bisogna lavorare con l’azienda seminando dubbi, proponendo nuove idee e dimostrando che queste portano risultati tangibili, come ci ricorda John Kotter.
Che consigli daresti ai Product Manager per seminare questo mindset di prodotto all’interno dell’azienda? Quali sono le strategie più efficaci?
La semina di un nuovo mindset è un processo che richiede tempo, pazienza e perseveranza. Per facilitare questo cambiamento, è fondamentale partire dalla “curiosità”. Bisogna incuriosire le persone, stimolare la loro curiosità e supportarle in questo percorso. Per me “seminare” significa condividere le proprie esperienze e raccontare ciò che si fa, mettendo a disposizione le proprie competenze per confronti e approfondimenti. Infine, è utile organizzare momenti di studio condiviso, proponendo la lettura di libri o articoli specifici per poi confrontarsi sulle idee e sui concetti appresi.
Arriviamo all’ultima domanda, quella della “bacchetta magica”. Se avessi una bacchetta magica, cosa cambieresti o semplificheresti nel ruolo del Product Manager?
Se avessi una bacchetta magica, farei in modo che il Product Manager diventasse un esploratore a tempo pieno, senza doversi preoccupare della parte di delivery. Il suo compito principale sarebbe quello di esplorare il mondo, di andare alla scoperta di nuovi trend, di comprendere i bisogni degli utenti e di definire una visione di prodotto che sia realmente innovativa e di valore.
Takeaway
- Scavare oltre i bisogni evidenti: la chiave per prodotti di valore. In un mercato saturo di prodotti, il successo sta nel cogliere necessità inespresse degli utenti, andando oltre le soluzioni già esistenti.
- Sperimentazione iterativa: l’antidoto alla complessità. In contesti volatili, testare, validare e iterare con cicli rapidi è essenziale per adattarsi a bisogni che evolvono velocemente.
- Discovery vs. Delivery: bilanciare risorse e contrastare gli HiPPO. Strutture flessibili, team cross-funzionali (come il product trio) e una cultura che privilegia i dati alle gerarchie sono essenziali per promuovere una cultura di continuous discovery.
- Il Product Manager come agente di cambiamento. il PM deve educare l’azienda a un approccio centrato sull’utente, contrastando resistenze con esempi tangibili e coinvolgimento attivo.