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Il confine tra necessità e moda, a volte, può essere molto labile. È questo il caso della sostenibilità, tanto nelle scelte dei consumatori quanto nelle azioni di comunicazione delle aziende, dove da tempo è in atto una ristrutturazione delle proprie offerte al fine di metterne in risalto gli aspetti green.
Sembrerebbe un fattore positivo, a prima vista: eppure, non tutto ciò che sembra green lo è veramente. Ed è qui che entra in gioco il rischio maggiore. In questa grande “corsa al verde” ormai sempre più aziende sembrano prediligere obiettivi a breve termine a scapito dell’effettiva trasparenza. Il risultato sono claim che, anche se emessi in buona fede, possono ingannare e confondere i consumatori.
I regolatori di tutto il mondo sono sempre più consci del problema e si stanno conseguentemente mobilitando per proteggere i consumatori da claim fuorvianti con nuovi regolamenti che sanzionino le aziende colpevoli, in buona o mala fede, di greenwashing. O di quello che potremmo definire, provocatoriamente, ambientalismo di facciata.
Cos’è il greenwashing…
Dal gioco di parole inglese del whitewashing – letteralmente “dare una mano di bianco” – applicato al mondo cinematografico, dove il termine indicava l’abitudine di utilizzare attori caucasici per qualsiasi ruolo, deriva il termine greenwashing – che potremmo dunque tradurre, in questo caso, con “dare una mano di verde”.
Fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld ad utilizzare per la prima volta il termine nel 1986, puntando il dito contro l’escamotage dell’impatto ambientale utilizzato da alcune catene alberghiere che invitavano i clienti a ridurre il consumo di asciugami e il relativo lavaggio quando in realtà la motivazione risiedeva nel taglio dei costi di gestione.
Ed è in questo senso che spesso il greenwashing viene chiamato anche con l’espressione green appeal, ossia il vanto della sostenibilità. Qualcosa che fa molto presa sui consumatori, grazie alle tante lotte e all’attivismo climatico: secondo uno studio dell’Unione Europea, infatti, la metà dei consumatori europei cerca informazioni sulla confezione del prodotto che vorrebbe comprare per sapere se sia ecologico o meno. Tuttavia, oltre la metà dei green claims sono vaghi, fuorvianti o infondati e il 40% risulta completamente privo di basi comprovabili.
…e perché è così pericoloso
Tecnicamente, possono essere colpevoli di greenwashing aziende, istituzioni oppure ancora enti nel caso in cui esaltino gli aspetti sostenibili delle proprie attività, senza soffermarsi su dati o fatti che comprovino l’effettivo impatto positivo. Si tratta dunque di una tecnica di comunicazione o di marketing che tenta di rispondere a proprio vantaggio alla crescente domanda di prodotti e servizi a basso impatto ambientale.
Le pratiche di greenwashing comportano vari rischi, dai casi di marketing fraudolento ai casi di perdita di fiducia da parte del cliente e di perdita di credibilità per le aziende.
Un rischio ancora più critico riguarda poi la componente finanziaria e può costare caro agli investitori che seguono i criteri ESG – Environmental, Social, Governance – che potrebbero ritrovarsi a finanziare progetti e imprese che si dichiarano green ma che in realtà non apportano alcun beneficio all’ambiente e alle persone.
Ai rischi seguono poi le sanzioni: sulla base della proposta avanzata dall’Unione Europea le multe per greenwashing possono potenzialmente comportare una sanzione pari ad almeno il 4% del fatturato totale annuo dell’azienda, mentre in Australia tale importo sale al 30% del fatturato totale, o ad un massimo di 50 milioni di dollari australiani.
È dunque fondamentale, per le aziende ma anche per i consumatori e per gli investitori, essere a conoscenza del fenomeno e saperne riconoscere gli eventuali rischi. Ed è da qui che deriva la sempre crescente attenzione verso i green claim scorretti.
Una regolamentazione necessaria
In Italia, la prima sentenza per greenwashing è arrivata il 26 novembre 2021 con un’ordinanza cautelare emessa da Tribunale Ordinario di Gorizia, un atto che risulta essere tra i primi anche in Europa. Precedentemente, si erano espressi in materia con dei provvedimenti ad hoc il Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria e l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato.
Ma questo del caso del ricorso d’urgenza presentato del brand italiano Alcantara contro la concorrente friulana Miko, entrambe società attive nel settore della commercializzazione di fibre tessili, risulta essere il primo in cui si è espressa la magistratura ordinaria, che così ha stigmatizzato la vicenda: “la sensibilità verso i problemi ambientali è molto elevata, e le virtù ecologiche decantate da una impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto del consumatore medio”. Pertanto, “non è conforme ad un’esigenza di effettiva tutela dell’ambiente che i vanti ambientali divengano frasi di uso comune, prive di concreto significato ai fini della caratterizzazione e della differenziazione dei prodotti”.
Una presa di posizione, quella italiana, che non è isolata: l’Unione Europea si sta infatti muovendo verso la regolamentazione dei green claims allo scopo di proteggere i consumatori dal greenwashing, e su questa linea è arrivato il 12 marzo 2024 il via libera dell’Europarlamento alla Direttiva Green Claims contro il greenwashing. Che prevede, tra le altre cose, il divieto di utilizzare e diffondere dichiarazioni ambientali generiche come “ecologico”, “verde”, “amico della natura”, in assenza di prova di un’eccellenza riconosciuta, e un divieto di utilizzare e diffondere claim quali “impatto zero” e simili basati sulla compensazione delle emissioni.
Lo scenario internazionale
In America le chiamano Green Guides: pubblicate per la prima volta nel 1992 e riviste nel 1996, nel 1998 e infine nel 2012, sono linee guida che forniscono indicazioni sulle corrette affermazioni di marketing ambientale. In altre parole, si tratta di una guida che aiuta “i marketer a fare affermazioni di sostenibilità che non ingannino i consumatori”.
Proprio a seguito del crescente interesse dei consumatori verso prodotti ecosostenibili, la Federal Trade Commission (FTC) degli Stati Uniti lo scorso anno ha lanciato una consultazione pubblica per raccogliere commenti utili all’aggiornamento delle Green Guides.
Sempre nel 2023, l’ACCC australiano (Australian Competition and Consumer Commission) ha pubblicato otto principi per aiutare le aziende a non cadere nel rischio di claim fuorvianti:
- Fare affermazioni accurate e veritiere;
- Avere prove a supporto delle affermazioni;
- Non nascondere informazioni importanti;
- Spiegare eventuali condizioni legate alle affermazioni;
- Evitare affermazioni ampie e non qualificate;
- Usare un linguaggio chiaro e comprensibile;
- Gli elementi visivi non dovrebbero dare un’impressione sbagliata;
- Essere diretti e trasparenti sulla transizione alla sostenibilità.
Anche in nel Regno Unito, l’attenzione sui Green claims è piuttosto alta e già nel 2021 si erano dotati di un codice sul tema. Questo settembre, inoltre, l’Autorità per la concorrenza e i mercati (CMA) britannica ha pubblicato un documento di linee guida per le affermazioni sull’ambiente nel settore della moda e della vendita al dettaglio a seguito di una serie di indagini sulle dichiarazioni di sostenibilità di alcuni brand , ricordando che sulla base delle modifiche normative relative al più ampio tema della concorrenza e dei digital market (Digital Markets, Competition and Consumers Act), le autorità britanniche potranno imporre multe fino al 10% del fatturato globale se violano la legge sui consumatori.
E anche In India sono state proposte dall’autorità centrale per la protezione del consumatore (CCPA – Central Consumer Protection Authority) delle linee guida per gestire il greenwashing: le aziende che fanno affermazioni sui loro prodotti e servizi come “ecologici”, “buoni per il pianeta” o “cruelty free” dovranno dimostrare le loro affermazioni, mostrando le credenziali attraverso un display o un codice QR.
Le norme proposte definiscono il greenwashing come “qualsiasi pratica ingannevole o fuorviante, che include il nascondere, omettere o celare informazioni rilevanti, esagerando, facendo affermazioni ambientali vaghe, false o non comprovate, e l’uso di parole, simboli o immagini fuorvianti, dando enfasi agli aspetti ambientali positivi mentre si minimizzano o nascondono attributi dannosi”.
Di report, principi fondamentali e soluzioni
Per non incorrere, involontariamente, in una comunicazione scorretta della propria sostenibilità aziendale, i brand possono rifarsi ai Principi Fondamentali del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP – United Nations Environment Programme), contenuti nelle Linee guida per la fornitura di informazioni sulla sostenibilità dei prodotti.
Oltre ai principi di trasparenza e accessibilità troviamo la rilevanza, l’affidabilità, la chiarezza, il ricorso a dati e ipotesi supportati da prove e il collegamento esclusivo e diretto tra l’affermazione e il prodotto.
Inoltre, recentemente è emersa anche la necessità di porre attenzione ai claim di sostenibilità che si basano su iniziative di carbon offsetting. Un tema divisivo, dal momento che spesso la compensazione delle emissioni di carbonio è vista come forma di greenwashing, ossia come un tentativo di convincere i consumatori che i prodotti o i servizi di un’azienda siano più ecologici di quanto siano realmente.
Appare evidente, dunque, come l’unica risposta possibile al crescente rischio di esposizione al greenwashing sia prendere esempio dai dipartimenti di finanza e contabilità e iniziare a trattare il reporting di sostenibilità come un report finanziario. Solo concentrandosi sugli aspetti quantificabili della sostenibilità, infatti, le aziende potranno essere in grado di schermarsi da cause, sanzioni economiche pesanti e rischio reputazionale di deterioramento del brand.