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Centodiciassette anni. Quattro mesi. Due giorni. È il tempo trascorso da quella mattina di vento e gelo sulla spiaggia di Kitty Hawk, Carolina del Nord. Pozzanghere gelate, raffiche sferzanti.
Non era quello, davvero, il momento più buono per volare.
Non era buono né entusiasmante a dire il vero. Solo cinque persone tra cui tre passate lì per caso si trovavano in quella spiaggia a osservare un oggetto misterioso che aveva le sembianze di un aliante. Un aliante strano, con un motore che tradiva una certa artigianalità e improvvisazione nell’assemblaggio. A quel motore non credevano neanche loro, Willbur e Orville. Un ennesimo insuccesso annunciato, pensavano, ma tant’è. “Flyer” meritava un’altra possibilità.
Ore dieci e trenta del mattino, minuto più, minuto meno. È in quel momento che i fratelli Wright decisero di far partire l’esperimento. Si racconta che ai comandi di quell’aereo in legno con ali in tela vi fosse Orville, sdraiato a pancia in giù. Flyer era posto su una specie di slitta e trattenuto da un cavo. Motore acceso, portato su di giri, cavo rilasciato, velivolo in avanti. Poi dodici secondi in cui si è scritta la storia dell’aeronautica. Per la prima volta Flyer decise che era il momento di smettere di cadere di punta per alzarsi in volo. Un volo di dodici secondi, appunto, alla velocità di 48 kmh – 12 considerato l’effetto del vento contrario – percorrendo 36 metri a un’altezza media di tre metri dal suolo.
Centodiciassette anni dopo Flyer colpisce ancora. Lo fa in silenzio, come quella mattina in Carolina, ma ancora una volta è in grado di scrivere la storia. Un pezzo di Flyer è sbarcato proprio lì, oggi su Marte, nel drone Ingenuity in cui c’è un piccolo frammento di tela dell’ala dell’aereo dei fratelli Wright.
Simbolo, auspicio, tecnicalità. Poco importa. Importa invece che questo sia “solo il primo grande volo” del primo aereo extraterrestre, come definito dalla responsabile della missione di Ingenuity, MiMi Aung, ingegnere birmano-americana e project manager presso Jet Propulsion Laboratory. Ulteriori dati e nuove immagini del primo volo di Ingenuity sono attesi nell’arco dei prossimi tre giorni marziani, ognuno dei quali dura circa quaranta minuti in più rispetto al giorno terrestre. Sulla base di questo materiale, rileva la Nasa, si prevede di organizzare un secondo volo sperimentale non prima del 22 aprile. Se il drone-elicottero supererà anche questo secondo test, il gruppo di lavoro responsabile della missione metterà a punto le caratteristiche ottimali per ulteriori voli. Quando questo articolo sarà pubblicato probabilmente conosceremo già i risultati dei primi passi di Ingenuity. Ma il primo tentativo del 19 aprile è stato considerato da Aung e il suo team un “rocket launch”. Utilizzato nella sua accezione figurata in quel “rocket” c’è tutto il senso della missione e, in generale, dell’innovazione trainata dall’ingegno e dalle missioni impossibili. “Rocket science” è tutto ciò che all’inizio ci sembra fantascienza ma che attraverso perseveranza e ingegnosità può essere raggiunto. Non è un caso che il rilascio del drone-elicottero Ingenuity sia avvenuto dalla “pancia” del rover che la Nasa ha chiamato Perseverance.
Ingegno e perseveranza. Ecco la pima lezione di skill mix direttamente da Marte.
Sottolinea ancora Aung nelle dichiarazioni di queste ultime ore che per il lancio del 19 aprile il team si è preparato al meglio perché fosse un successo, consapevole che il volo avrebbe potuto essere cancellato e riprogrammato. “Nell’ingegneria c’è sempre incertezza ma questo è ciò che rende elettrizzante e gratificante il lavorare sulle tecnologie avanzate”.
Lavorare sullo sviluppo di “soluzioni che gli altri sono solo arrivati a sognare” attraverso un approccio di innovazione continua in contesti di incertezza unita al giusto mindset trasformativo. Ecco la seconda lezione.
Le tensioni culturali sottostanti alla lettura dei fenomeni sono importanti. Così come lo sono le parole che li descrivono. Ricordo che la mia prof. di inglese ci teneva costantemente alla larga dalla categoria dei false friend, ovvero quelle parole falsamente amiche che riuscivano a trarti in inganno nella traduzione perché molto simili ad altre con significato completamente diverso.
Ammetto di esserci caduta anche io, per un attimo, in quel tranello. La prima volta che sono incappata nella parola “ingenuity” ho pensato per un po’ significasse “ingenuità”.
Ho scoperto poi si trattasse di tutt’altro.
Qual è la differenza tra le persone esterne o interne alle organizzazioni che esaminano un problema con molti limiti e vedono possibilità insolite e nuove e coloro che invece lo guardano senza intravedere alcuna via d’uscita? La differenza è in una parola, due al massimo se si preferisce la versione italiana. Ingenuity, AKA ingegno organizzativo. Che non ha nulla a che vedere con l’ingenuità.
Il tema dell’ “ingenuity” all’interno delle organizzazioni parte da lontano, già negli anni ’60, con una prima riflessione di Thomas Kuhn, fisico, storico e filosofo statunitense, raffinata poi da molti studi successivi che hanno approcciato il tema all’incrocio tra capability individuale e tratto distintivo delle organizzazioni.
L’ingenuity può essere quindi definita come capacità, modo di pensare e agire che nasce dalla tensione tra bisogni e vincoli che provocano la riconsiderazione dei metodi e delle risorse esistenti stimolando connessioni nuove e soluzioni precedentemente ritenute impossibili.
Definizioni più recenti afferiscono all’alveo delle discipline di management in cui Joseph Lampel, professore di Gestione dell’Innovazione dell’Università di Manchester, può dirsi il maggiore studioso. In questa prospettiva, il focus è ancora una volta sulla capacità di creare soluzioni innovative utilizzando “risorse limitate e immaginative”. Per Lampel l’ingegnosità organizzativa denota infatti un cambiamento nel modo in cui persone, team e organizzazioni pensano e agiscono quando i processi e le soluzioni standard falliscono o non sono più in grado di risolvere problemi o soddisfare le esigenze del mercato. Altri economisti e studiosi del fenomeno hanno accostato all’ingegnosità organizzativa il termine “innovazione frugale” come modo per concettualizzare le abilità, i valori e i processi per la risoluzione creativa dei problemi nella scarsità e nelle avversità. In questo senso l’innovazione frugale è da vedere come “la grintosa arte di improvvisare soluzioni ingegnose”. I concetti si sovrappongono ma gli studiosi di entrambe le aree di ricerca emergente concordano sul fatto che nel nostro mondo interconnesso, complesso e mutevole, dove le soluzioni di ieri hanno dato vita ai problemi di oggi e le pratiche e i presupposti standard di oggi si frappongono tra le migliori soluzioni di domani, un mindset resiliente, transdisciplinare e di propensione al continuous update insieme al set di competenze che distinguono l’ingegnosità dall’innovazione lineare è urgentemente necessario seppur maledettamente scarso.
Del resto, anche il drone-elicottero Ingenuity ha avuto bisogno di un aggiornamento del proprio software prima di partire. Il fatto, se inizialmente avrebbe potuto essere considerato come agente di rallentamento rispetto alla roadmap progettuale, si è poi rivelato fattore critico di successo che ha reso il primo volo un successo.
Riflettere, aggiornare le proprie mappe e il proprio modo di pensare per essere in grado di affrontare situazioni, sfide e progetti senza precedenti. Ecco la terza lezione di trasformabilità da Marte.
Comprendere il ruolo dell’ingenuity nella cultura organizzativa e riservargli un posto di prim’ordine è la cosa migliore che le organizzazioni possano fare in contesti di incertezza. Anzi, in tutti i contesti. Abbiamo più spesso affrontato il tema del ritorno a un riflessione profonda sulla cultura come primo investimento per favorire l’innovazione ed esiste un framework originatosi dagli studi di Lampel e poi evoluto nel tempo per sviluppare la cultura dell’ingenuity nelle imprese come skill di base imprescindibile per ordinare, reimmaginare e reinventare il contesto in cui si opera. L’assunto sottostante è che l’ingenuity nasca negli individui e nelle organizzazioni attraverso valori e principi che supportano gli “orientamenti mentali, le tattiche sociali e le abilità necessari a intraprendere una “risoluzione creativa dei problemi entro i vincoli istituzionali”.
In un esercizio di adattamento e aggiornamento del modello, possibile grazie al lavoro su innovazione e cambiamento che quotidianamente ci impegna e ci appassiona con le aziende, abbiamo provato a dare una nostra interpretazione di ingenuity declinata su concetto e pratiche di trasformabilità.
- Resilienza. Permetti a te stess* di esserl*, raccogli la sfida, persevera. I fratelli Wright ne sanno qualcosa
- Passione. Se non lavori per un futuro migliore che valga la pena perseguire, cosa lavori a fare?
- Empatia. Apprezza e ascolta. Se lo fai costantemente, la tua ingenuity e quella del team ti ringrazierà
- Intraprendenza. Non significa non considerare i limiti ma lavorare entro gli stessi. Il gusto di trovare nuove soluzioni sta in fondo nell’avere vincoli.
- Improvvisazione. È bello sentirsi dilettanti. Prova ogni tanto, è un esercizio che dovresti concederti
- Stupore. Gli “a-ha” moment sono beni rari e preziosi in natura. Sfruttali dedicando loro il giusto pensiero sistemico
- Adattabilità. Non è una brutta parola. Cambiare può rivelarsi liberatorio
- Frugalità. Per sviluppare l’ingenuity non servono molte risorse. Ti dicono qualcosa i progetti “zero-based budget”?
- Fallimento. È puro valore quando arriva presto, spesso e a poco prezzo
- Semplicità. Fare più con meno, fare abbastanza per iniziare una sperimentazione, anche piccola. “Se vuoi avere successo nella vita rifatti il letto la mattina”. Se lo dice l’ammiraglio McRaven possiamo almeno concederci di provare
- Diversità. Di persone, conoscenze, relazioni. Sta all’ingenuity come il lievito sta al pane. Se non c’è diversità, anche l’ingegnosità non crescerà.
La prima volta che sono incappata nella parola “ingenuity” ho pensato per un po’ significasse “ingenuità”. Ho scoperto poi si trattasse di tutt’altro. Ma a dire il vero non ne sono più così convinta ora. Perché essere ingegnosi vuol dire permettersi il lusso di essere anche un po’ ingenui. Facendola semplice, prendendosi sul serio il giusto, lavorare nel paradosso e nel vincolo come alleati di progetto.
Forse i false friend non sono così falsi, allora. Nel dubbio, vado a rifarmi il letto.