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Luca Maniscalco

L’evoluzione del fundraising: come cambiano le skill e i rapporti con il business

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Il No Profit non è solo “poter dare una mano”. Il mercato del lavoro in questo settore si è professionalizzato. Sono arrivati manager da grandi aziende e neolaureati da percorsi specifici in ambito fundraising e Terzo Settore.

È cambiato anche il mondo attorno. Dalla comunicazione via radio e telefono ai gruppi whatsapp e le dirette social dai campi di guerra.

Il valore del No Profit in Italia è stato di 84 miliardi di euro. Un contributo reale alla crescita del nostro Paese. Tra Profit e No Profit si stanno costruendo collaborazioni di grande interesse. Un settore impara dall’altro e viceversa.

In Italia ci sono ancora molte potenzialità inespresse anche in settori culturali e accademici. Ho fatto un viaggio nel No Profit insieme a Francesca Lucci, responsabile Fundraising e Campagne dell’Ospedale Isola Tiberina – Gemelli Isola.

Francesca, come sono cambiate le No Profit nell’ultimo decennio? Quali sono i fattori che hanno innescato e intensificato questo cambiamento?

Questi ultimi anni intanto hanno visto aumentare il numero delle no profit italiane e nascere tantissime anche piccole realtà non solo nelle città principali ma oramai su tutto il territorio italiano. Basti considerare che al 31 dicembre 2020 le istituzioni non profit attive in Italia sono 363.499 e impiegano complessivamente 870.183 dipendenti.

In questi anni le no profit sono caratterizzate da un grande fermento in termini di HR. Il mercato del lavoro in questo settore è molto dinamico.

Sono spesso contattata da amici e conoscenti molto motivati o solo desiderosi di “poter dare una mano” ma per chi, come me, che è immerso nel mondo del terzo settore da quasi 20 anni è chiaro che questo ambito lavorativo è forse ancora erroneamente percepito da alcuni come un tipo di lavoro “amatoriale” mentre è decisamente a tutti gli effetti paragonabile al mondo profit in termini di strumenti e competenze.

Cosa è successo quindi alle No Profit?

Le no profit sono diventate realtà lavorative estremamente professionalizzate grazie non solo all’ingresso di manager dal mondo profit ma anche di neo laureati in percorsi universitari e post universitari specifici nel mondo del terzo settore. Aggiungo, per fortuna! Infatti, competenza ed esperienza hanno un impatto significativo sulle donazioni che in estrema ratio, vengono gestite in modo efficiente ed efficace, cioè destinate nel modo più veloce e là dove serve in modo trasparente.

Tutta questa grande curiosità verso il mondo del terzo settore rispecchia da un lato una generale aumentata consapevolezza di voler arricchire il proprio impegno lavorativo di un impatto sociale e anche dal fatto che il terzo settore è più “conosciuto” presso il grande pubblico. Le no profit finalmente comunicano e sono presenti sui media. Hanno imparato a comunicare – e bene – le proprie attività avendo compreso che senza una rendicontazione del proprio impatto in modo chiaro e costante non è possibiule costruire una base donatori consistente nel tempo.

Raccontami una tua esperienza professionale personale che possa farci capire cosa fosse e cosa sia diventato il tuo “settore”.

Ho sempre lavorato nel fundraising filantropico, quindi gestisco “pochi” grandi donatori, aziende, fondazioni familiari e i donatori testamenti.

Ricordo che la mattina del 12 gennaio 2010, scoprii alla radio del disastroso terremoto di Haiti. Lì la mia organizzazione era presente con tanti progetti e quindi il primo pensiero fu per il destino dei miei colleghi e dei nostri pazienti. Immediatamente dopo era urgente informare i miei donatori in “tempo reale”. Mi vestii in fretta e furia, scappai in ufficio e mi misi alla scrivania a leggere i nostri comunicati interni, a scrivere le mail e a telefonare. Furono ore e giorni di grande fillibrazione e sempre sempre al telefono: i donatori chiamavano per sapere come poter contribuire e io richiamavo per raccontare nel modo più fedele possibile le testimonianze dei nostri colleghi dall’Isola, mandando le foto man mano che arrivavano.

Facciamo un salto temporale in avanti di oltre dieci anni e arriviamo – purtroppo – al 22 febbraio 2022, allo scoppio della guerra in Ucraina. Oggi il mio lavoro e la relazione con i donatori sono profondamente cambiati. La mattina (da casa) sono stata in contatto in real time con i nostri operatori dal territorio che trasmettevano via teams le notizie. Nel frattempo aggiornavo i miei donatori via whatsapp e nel giro di un paio di giorni sono riuscita ad organizzare un webinar direttamente dal confine con l’Ucraina con il nostro capo missione che ha potuto rispondere alle domande dirette. Un contatto continuo che permette un coinvolgimento in prima fila dei donatori che riescono a comprendere meglio le difficoltà e le sfide operative ma anche i costi. Ed infine si sentono parte di un team, e capiscono come senza di loro tutto ciò non sarebbe possibile.

Per rendere tutto questo fattibile, c’è un ufficio di persone pronto e soprattutto preparato in modalità “emergenziale”: l’ufficio stampa che seleziona le immagini, i colleghi delle operations che stimano il budget dell’intervento e che deve essere finanziato ed infine il team analisi che estrae dal database i nominativi dei donatori ai quali mandare una richesta di donazione emergenziale. Una vera macchina “da guerra” – passatemi il termine – che permette di tenere a bordo il donatore in real time con maggiore coinvolgimento e senso di quello che riusciamo a fare grazie al suo contributo.

E il fundraising? Cosa è? E perché è importante?

Con il termine “fundraising” si intende il complesso degli strumenti utili per raccogliere denaro (“funds”) per sostenere o finanziare un progetto o una causa no profit. Per capire quanto il settore no profit sia importante e perchè sia necessario, è utile fare riferimento ad un breve passaggio del Rapporto “Sussidiarietà e sviluppo sociale” (anno 2022). «Il non profit dà un contributo vitale alla crescita dell’Italia: il valore della produzione ha raggiunto nel 2022 gli 84 miliardi di euro (+5% rispetto al 2020), secondo la Fondazione per la Sussidiarietà. L’impatto reale sfiora i 100 miliardi di euro, considerando l’attività degli oltre 6 milioni di volontari.»

Che rapporti vedi tra Profit e No Profit?

Non penso che Profit e No Profit possano mai fare a meno l’uno dell’altro. E’ una relazione che negli anni si è consolidata e anche penso “maturata” da entrambi i lati. Le aziende hanno imparato in questi anni che con il terzo settore si possono costruire collaborazioni di grande valore e che il loro ruolo è fondamentale per sostenere iniziative che hanno impatto su tutto l’universo degli stakeholder di riferimento.  Le no profit, invece, trovano nel profit un solido finanziatore e negli anni sono state sfidate a loro volta ad imparare a rendicontare in modo chiaro, efficace e tempestivo.

Tu hai esperienza internazionale. Come siamo messi come Italia? Quali sono le nazioni da studiare come benchmark?

Nonostante i numeri appena citati e il fatto che tutti i dati dimostrano una crescita delle donazioni c’è ancora grande potenzialità per il fundraising italiano. Mi piace citare ad esempio le donazioni testamentarie, una fetta di raccolta fondi ancora poco esplorata per motivi culturali che sta avendo in questi anni una velocissima crescita e l’avrà ancora nei prossimi anni.

Onestamente non riesco ad indicare Paesi specifici da assumere come benchmark, in generale perché in ogni cultura la filantropia ha una storia molto diversa che non è direttamente paragonabile con altre. Di certo però se desidero andare alla ricerca di best practice da sperimentare in Italia vado a mettere il naso nel lavoro dei miei colleghi dei paesi anglosassoni, che hanno una cultura filantropica estramente radicata e composita.

Quanto è importante la formazione nel tuo ambito?

Come ho accennato prima, penso che una delle chiavi di volta di una crescita sana della raccolta fondi sia che di disporre di gente esperta e formata per praticarla e metterla in azione. La formazione è fondamentale e auspico che sempre più realtà accademiche attivino corsi in tal senso. La domanda è molto alta.

E le competenze digitali?

Ça va sans dire, ma aggiungo: lasciamo fare il lavoro agli esperti nel campo. Il fundraiser deve sapersi orientare, avere la capacità di un pensiero critico rispetto agli strumenti digitali, saper leggere un report di campagna per intenderci e riuscire a fare un brief per acquistare spazi media… ma poi lasciamo fare ai nostri colleghi esperti!

Cosa vedi nel futuro della tua professione?

In Italia penso ci sia ancora molto da fare, o meglio ci siano ancora grandi potenzialità, per esempio, nell’ambito del fundraising per il mondo della cultura e del mondo accademico. Laddove in altri Paesi da sempre la raccolta fondi sostiene centri d’eccellenza museali o università, in Italia abbiamo solo alcuni singoli casi. Da noi, questa cultura non è ancora diffusa.

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