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“Non esistono i coraggiosi, solo persone che accettano di andare a braccetto con la loro paura”. Mentre ricordiamo in questi giorni Luis Sepúlveda ci torna in mente la sua visione del mondo, romantica e disillusa al tempo stesso, tra i frammenti di una vecchia normalità e l’illusione di una “normalità nuova”, decisamente diversa.
La tentazione di cedere nel pessimismo c’è. Se guardiamo infatti lo scenario del lavoro pre-Covid, la prospettiva dominante era quella dell’automazione e, quindi, della perdita di un’occupazione da parte di milioni di lavoratori a vantaggio di androidi e robot.
Per fortuna ci sono i numeri che ci aiutano ad affrontare la “nuova normalità” con una velata ventata di ottimismo. Perché se è vero che l’intelligenza artificiale sta cambiando i connotati della future workforce – cancellando per sempre alcune professioni – è anche vero che altrettante (o forse più) ne nasceranno, più umane che mai. Quelle che non potranno fare a meno di creatività, sense-making e human touch nelle relazioni. Lo studio di McKinsey aveva già previsto proprio questo trend cross-industry. Resisteranno quelle professioni e quelle aziende in grado di muoversi sul doppio binario della semplificazione e della personalizzazione, elementi fondamentali della strategia del continuous improvement.
Se è vero che dietro ogni successo dei clienti c’è sempre una valida esperienza dei dipendenti, è anche vero che, in tempi come questi, “esperienza” significa senz’altro capacità di mettere a fuoco gli obiettivi comuni.
Per farlo, occorre attivare risorse, capabilities e tutta una serie di pratiche pronte a stimolare il “cervello ambidestro”, quella parte deputata all’organizzazione e capace di portare avanti presente e futuro in un esercizio costante di “forward-looking”. Soltanto grazie a questo processo sarà possibile definire la strategia di reskilling più efficace per il raggiungimento degli obiettivi di business del medio-lungo periodo. Perché risultati e competenze, abilitati all’agilità organizzativa, sono facce della stessa medaglia, soprattutto a fronte della disruption generalizzata che tutte le industry, nessuna esclusa, hanno subito negli ultimi 36-48 mesi.
Siamo tutti testimoni di una “Unprecedent disruption”, come la definisce McKinsey: un’impetuosa evoluzione – sia per velocità, sia per scala – guidata da una serie di fattori inarrestabili, quali generazione dei dati, potere computazionale e connettività.
E se parliamo di disruption, non possiamo fare a meno di considerarne gli impatti sulla tecnologia e sul mercato. In fatto di adoption tecnologica, infatti, fenomeni simili hanno visto la luce in passato, ma presentavano una differenza sostanziale rispetto lo scenario attuale: la contingenza di un mercato stabile. Al contrario del passato, il mercato di oggi è del tutto instabile: si tratta, nello specifico, di un’instabilità comune a tutti i modelli di business. È per questo che il mantra “innovate or die” è ad oggi più attuale che mai, data la pressione delle aspettative del consumatore, continuamente crescenti, e un’obsolescenza tecnologica sempre più rapida.
Flessibilità, sicurezza, conformità normativa, qualità del servizio e personalizzazione restano le principali sfide. Sfide di business che hanno il loro contraltare nella configurazione organizzativa e, più nello specifico, nel ripensamento del modello delle competenze: introdurre, modificare, eliminare, potenziare le skill per guidare con efficacia una transizione destinata a lasciare un’impronta nell’evoluzione verso il new normal.
Nel nuovo normale, infatti, la sola leva tecnologica non può bastare a ridisegnare i nuovi comportamenti interni ed esterni all’organizzazione. Il reskilling di molte industry deve necessariamente tenere insieme due velocità: quella dell’implementazione e quella dell’assimilazione. L’implementazione passa per l’impiego dell’intelligenza artificiale, dei processi automatizzati e degli Analytics; l’assimilazione passa per quell’”imparare ad imparare” che è necessario attivare a ogni livello dell’organizzazione.
A partire da questo stadio di consapevolezza prendono forma i progetti di reskilling della workforce dei clienti supportati da BIP. La definizione di queste attività è, infatti, resa possibile dall’expertise di Human Capital – Centro di Eccellenza di BIP – e dall’esperienza verticale maturata, nelle industry, all’interno delle Aree di Business.
Una people strategy che guarda al futuro prossimo per tornare al presente e identificare le tattiche di insourcing, outsourcing e hiring.
Grazie a questo naturale passaggio, le competenze a disposizione dell’organizzazione sono rese più agili, responsive e in grado di rispondere alle sfide di business. I progetti di reskilling, sopra citati, saranno, nel breve e nel medio periodo, responsabili di un cambiamento e di un impatto evidente sui gruppi di lavoro e su quelle competenze che oggi rappresentano il valore aggiunto sul mercato e delineano new skillset prioritari.
Percorsi di reskilling funzionali, il cui mantra risiede nel “Learn-Do-Repeat”: apprendere nuove skill, farne esperienza ed inserirle nella propria routine professionale.
Si parte da un’analisi a monte dell’“as is” per misurare gli impatti quali-quantitativi sugli FTE e i fabbisogni di nuove professionalità rispetto ad azioni strategiche di cambiamento, area organizzativa e job (fase 1 di mapping). Una visione “tridimensionale” dell’organizzazione in base alla quale definire, per ogni professione coinvolta nel processo di cambiamento, i profili professionali attuali e futuri, le competenze a rischio obsolescenza e quelle non ancora presenti nell’organizzazione – le quali andranno completamente integrate per aumentare consapevolezza e competitività (fase 2 di embedding).
Il reskilling journey non è solo una questione di FTE, come definito nelle riflessioni di Ravin Jesuthasan e John W. Boudreau in “Reinventing Jobs: A 4-Step Approach for Applying Automation to Work”. Sentirsi parte di un percorso evolutivo è il valore aggiunto dei nostri progetti.
Nuovi modi di lavorare senza tradire i propri valori, nuove competenze rispettando velocità e modalità di apprendimento di tutti. La sentiment analysis tipica di ogni nostro progetto di reskilling ci porta a proiettarlo in una dimensione superiore. L’obiettivo della “learning organization”, organismo in cui creare e iterare percorsi di apprendimento e di sviluppo per il ruolo attuale e per i ruoli potenziali, richiede di spingersi verso una fase 3: quella del “Living”. Questa fase consiste nel coinvolgimento e nella responsabilizzazione dei singoli dipendenti ad essere parte di un gioco più grande da affrontare insieme. La strategia di design partecipativo e la roadmap di comunicazione – come elemento abilitante della strategia di reskilling – fanno la differenza in termini di coinvolgimento.
Il “reskilling journey” è per i nostri clienti più una maratona che una corsa. E una maratona richiede tenacia, costanza, saper guardare ogni passo in avanti senza dimenticare quelli precedenti. Ogni avanzamento corrisponde a un capitale accumulato di conoscenze, pratiche, valori e comportamenti. Dato che indietro non si torna, disegnare insieme l’orizzonte delle Future Skill dell’organizzazione – ove convergere per sentirsi parte di un sistema che evolve verso un’idea condivisa di “futuro di senso” è uno step fondamentale. Solo così potremmo guardare il mondo da prospettive diverse da quella dell’automability in cui la macchina, alla fine, avrà la meglio sull’uomo. La vera sfida è per noi nell’“augmented employability”, un modello di occupabilità aumentata che nel mix tra cultura e tecnologia, osservazione e innovazione, iterazione e riflessione trova la sua espressione migliore.
I numeri del reskilling
- 75 milioni: sono i posti di lavoro che scompariranno nei prossimi anni a causa dell’automazione e dell’integrazione tecnologica
- Metà: sono le competenze di base che cambieranno completamente
- 133 milioni: sono i nuovi posti di lavoro creati grazie alla trasformazione.
Il bilancio è positivo ma c’è un elemento da tenere fortemente in considerazione quando si parla di reskilling: lo skill mismatch. Tradotto, le competenze di chi lavora sono sempre meno allineate alle richieste del mercato del lavoro dominato sempre più da algoritmi, intelligenza artificiale e soft skill.
In Italia il mismatch è tra i più alti dell’area Ocse, sia per eccesso che per difetto. Una situazione generata dal mancato allineamento tra sistema formativo e sistema produttivo: le competenze ci sono, ma non sono quelle chieste dal mercato, generando una ricaduta diretta sulla crescita.
[Fonte: OCSE, WEF]
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