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Digital transformation. Una prospettiva culturale.
Osservando quello che succede oggi alle organizzazioni aziendali, in preda alla corsa alla digital transformation, la tentazione di lasciare da parte la cultura per concentrare investimenti ed energie sulla tecnologia è stata e continua ad essere forte.
Perché il concetto di “cultura” sfugge al controllo ed è difficile da misurare.
Sostengono gli antropologi che gli “occhiali culturali” sono quelli che ci aiutano ad avere una nostra visione e dare un nostro senso al mondo. In azienda tutti indossiamo questi occhiali che generano percezioni e letture differenti relativamente alle dinamiche ed alle strategie delle organizzazioni di cui facciamo parte.
Si dice che se la cultura non può essere misurata non esiste, ma allora è vero che quest’ultima mangia la strategia a colazione?, la risposta è nel “fattore S”.
Cultura e “fattore S”. SISTEMICO
Il problema della cultura è il fattore S(istemico). L’organizzazione è un sistema umano, per definizione: dinamico, aperto, funzionale, socio-tecnico.
Non segue regole necessariamente logiche, è aperto, perché riceve informazioni ed energia e restituisce prodotti, servizi, esperienze, relazioni e conoscenza. Inoltre è funzionale, laddove ciascun elemento assolve al suo compito ed è socio-tecnico perché caratterizzato da un mix di decisioni umane e risorse tecnologiche.
Possiamo dire sulla cultura che si compone di due aspetti, il primo (positivo) è quello di fornire coerenza e continuità, il secondo (negativo), quello di radicarsi all’azienda con retaggi di pratiche obsolete e poco contemporanee.
“Questi siamo noi” si trasforma velocemente in “questo è il nostro modo di fare” fino all’apoteosi dell’”abbiamo sempre fatto così” che uccide ogni velleità e forma di innovazione e crescita.
Ecco perché la cultura che è più difficile da cambiare rispetto alla strategia (essendo gran parte di esse inconscia) mangia quest’ultima a colazione.
La nostra esperienza in fatto di trasformazione digitale ci porta ad osservare i rapporti tra leader ed employee. Un’indagine condotta da Capgemini evidenzia il disallineamento di percezione tra leader ed employee nelle organizzazioni in fatto di trasformazione digitale. I dati dimostrano come le azioni messe in campo dalla leadership – o la loro mancanza – svolgano un ruolo significativo nel definire la cultura aziendale.
Dalla survey emerge come spesso gli employee percepiscano i leader come role model che agiscono poco o per nulla, attraverso comportamenti concreti, una visione coerente di evoluzione digitale; così come spesso non definiscano i giusti KPI e incentivi per allineare gli obiettivi di trasformazione digitale rispetto all’evoluzione delle pratiche comportamentali desiderate.
La risposta alla domanda “La tua organizzazione ha una visione digitale ben comunicata a tutta l’organizzazione?”, nelle aziende italiane intervistate è stata: sì per il 100% dei leader e per lo 0% degli employee. Stessa sorte per la domanda: “Nella tua organizzazione i leader attuano comportamenti di apertura al cambiamento e adozione di nuove pratiche?” che dipinge un quadro inequivocabile del fenomeno di “leadership-employees divide”.
Cultura e fattore S. SINTONIZZAZIONE
E’ sicuramente pervasivo il fattore S(intonizzazione) nei rapporti tra leader e resto dell’organizzazione relativamente alla costruzione della cultura. Ma il “leadership-employee divide” non è il solo rapporto de-sintonizzato all’interno dell’organizzazione.
L’americano ADP Leadership Institute ha recentemente pubblicato un sondaggio globale sul livello di engagement degli employee che mostra come i valori aziendali abbiano avuto un impatto molto limitato sull’employee experience.
Ciò che conta è la squadra in cui si trovano inserite le persone. Sono più importanti i team-mate più stretti rispetto alla vision a volte troppo teorica disegnata dalle aziende stesse. A livello di osservazione questo ha provocato una maggiore varianza dell’employee experience all’interno delle aziende che tra diverse aziende. Un tema, questo, che si fa esponenzialmente più complesso al crescere delle dimensioni dell’organizzazione.
Uno studio dell’antropologo Robin Dunbar sulle dinamiche di gruppo ha scoperto che i limiti delle nostre potenzialità cognitive fissano dei paletti anche nel numero di relazioni di fiducia che l’individuo è in grado di formare.
Il “numero di Dunbar” è stato fissato in circa 150 relazioni, limite gestibile con efficacia dalla nostra neocorteccia cerebrale secondo studi neuroscientifici. Nella nostra vita, nelle comunità e nel lavoro, possiamo quindi essere in sintonia con altri 150 umani, facciamo fatica ad andare oltre.
Nonostante questi limiti cerebrali, cerchiamo costantemente di ampliare le nostre organizzazioni, allargare i team e scalare senza limiti di tempo e spazio la nostra cultura organizzativa.
La ricerca antropologica e neuroscientifica fornisce al management alcuni insight preziosi. Il più delle volte lavorare sulla cultura implica quindi prima di tutto lavorare sulla sintonizzazione culturale che parte dal micro per scalare al macro. Solo realizzando purpose e cultura a livello di team, potrà realmente dirsi compiuto il lavoro sull’organizzazione.
Cultura e fattore S. SISTEMATIZZAZIONE
Il fattore S(istematizzazione) delle pratiche aziendali garantisce una transizione smart e durevole che trasforma la cultura portandola da analogica a digitale.
Abbiamo sistematizzato queste pratiche nel framework OASI: Openness, Autonomy, Speed, Impact.
Riconoscendo l’immensa scalabilità delle soluzioni digitali, i leader si concentrano sulla creazione di impatto (impact) considerando il profitto come suo “buy-product”. La velocità (speed) aiuta le aziende a tenere il passo con i concorrenti e con i desiderata dei clienti in rapida evoluzione. L’apertura (openness) incoraggia a lavorare in maniera inclusiva e passando dall’accentramento al coinvolgimento di stakeholder ed intelligenze diverse. L’autonomia (autonomy) offre la libertà di fare ciò che è giusto per l’azienda e i suoi clienti attingendo dalla propria responsabilità individuale.
OASI è un’insieme di valori che arricchiscono l’azienda di una workforce che evolve attraverso la responsabilità individuale con pratiche che danno vita a valori personali e di progetto, linfa di cui l’azienda di oggi ha quotidianamente bisogno.
Le aziende digitali ad alta prestazione sono infatti accomunate da alcune pratiche essenziali ricorrenti quali: sperimentazione rapida, auto-organizzazione e processo decisionale basato sui dati.
La nostra esperienza ci suggerisce che le aziende dovrebbero cercare di creare una cultura digitale come evoluzione della loro “organizational heritage”, l’eredità/identità aziendale.
Non tagliare i ponti ma fare i conti con il passato. È questo ciò che abbiamo imparato accompagnando le organizzazioni nei loro percorsi sempre diversi di trasformazione digitale. Trainati da pensiero Sistemico e pratiche di Sintonizzazione e Sistematizzazione.
Cultura e fattore S. SENZA.
Cosa sarebbe stato il mondo in lockdown in assenza di lavoro, comunicazione, produzione trainati dal digitale? Con buona pace degli analogici, il digitale è qui per restare. Ma resterà come mezzo. Fino a cedere il testimone al prossimo, realtà virtuale e aumentata in primis.
La cultura digitale deve quindi paradossalmente fare i conti anche con il fattore S(enza).
Se il digitale è un mezzo e non è il fine, la cultura digitale ha il compito di preparare l’organizzazione a essere pronta ad accogliere la prossima innovazione di mezzo, di canale, di scopo. Ma la sua sfida più grande è quella di preparare l’organizzazione ad una identità propria riconoscibile anche attraverso e grazie al digitale.
Tutto si può e non tutto si deve digitalizzare, questa è la provocazione. In tempi di trasformazione, innova solo chi osa non cedere alla tentazione di ridurre la propria identità a una questione di mezzo. Il significato di rivoluzione digitale per noi è tutto qui.
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